Domenica 2 ottobre 2016 Il Sole 24 Ore approda nelle edicole e nei tablet nascondendo tra le sue pagine uno degli scoop dell’anno, a livello mondiale. Il noto giornalista economico Claudio Gatti ha lavorato per mesi, scartabellando dichiarazioni dei redditi, registri catastali e ogni documento finanziario su cui sia riuscito a mettere le mani, per provare senza ombra di dubbio l’identità della scrittrice che si nasconde dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante.

Qui però occorre un salto indietro nel tempo, almeno per alcuni di voi lettori italiani. Nel 1992 approda nelle librerie nostrane il primo romanzo di Elena Ferrante, L’Amore Molesto; un successo discreto, da cui trarranno anche un film. A scriverlo e pubblicarlo con la casa editrice e / o è una scrittrice che rivendica più volte nel corso degli anni il proprio diritto all’anonimato. Negli anni successivi rilascia qualche intervista, preferibilmente alla stampa estera, e dà alcuni punti certi di partenza sulla sua identità: è una donna, è italiana, è molto legata alla città di Napoli, ambientazione della sua successiva quadrilogia, con cui diventa un caso letterario mondiale.
Il rapporto privilegiato con la stampa estera e il fatto che forse alcuni di voi abbiano avuto bisogno di questa veloce introduzione è dato dal fatto che l’autrice de L’Amica Geniale è attualmente l’autore italiano più noto e venduto (anzi, stravenduto) al mondo, ma non è profeta in patria.

Meditavo di scrivere questo pezzo da tempo, perché questa minuziosissima inchiesta finanziaria volta a far fare outing forzato all’autrice è solo l’ultimo e più disturbante sintomo del rapporto conflittuale che il giornalismo, la critica letteraria e l’establishment culturale italiano hanno con la Ferrante.
L’articolo non è piaciuto ai lettori della Ferrante, che hanno reagito criticando Claudio Gatti e la sua svolta poliziesca, che “incastra” l’autrice ricorrendo a tasse e proprietà, come se fosse una novella Al Capone, impossibile da incastrare in altro modo. Le motivazioni con cui il giornalista ha giustificato la sua inchiesta in coda all’articolo sono state via via attaccate da tutte le maggiori testate (culturali e non) a livello globale: Le Monde, Libération, The Guardian, New Yorker, New Republic e Paris Review. Il gotha critico e letterario mondiale la difende e s’indigna.

Una tale levata di scudi suggerirebbe quantomeno una difesa, o meglio ancora una scusa e un passo indietro da parte di Gatti e delle 4 testate che hanno lanciato lo scoop in contemporanea nel mondo.
In serata arriva un comunicato della casa editrice della Ferrante, che per anni ha condannato questa ricerca ossessiva della sua identità. Si ricorda che per un lustro l’inserto culturale del quotidiano (che vanta anche un mensile high brow, IL) ha sistematicamente ignorato l’autrice, la sua opera e il suo successo, fino al primo pezzo dedicato, uscito poche settimane fa.

I giornali esteri parlano di doxxing, di un outing forzato, di un gesto che non aggiunge nulla all’opera dell’autrice ma che sottrae a lei i diritti e a noi, forse, i suoi futuri scritti: Ferrante in passato è stata categorica sul fatto che l’anonimato era condizione sine qua non per la sua carriera.
Quello che i giornali esteri non dicono è ciò che non possono davvero comprendere, perché non vivono in Italia. Sanno che la nazione ospita un’autrice candidata all’International Man Booker Prize, in testa alle classifiche di vendita di tutto il mondo per buona parte dell’estate, con una serie TV in arrivo, acclamata dalla critica internazionale. Tuttavia ignorano che la supposta mossa di marketing e la vituperatissima presunta ostentazione del misterioso segreto identitario hanno avuto come risultato il fatto che buona parte della popolazione non sa nemmeno chi sia, Elena Ferrante. D’altronde non ha mai fatto il giro delle Sette Chiese per promuovere i suoi libri, non va in tv, non fa book tour, non ha profili social.

Mentre i giornalisti esteri danno la colpa di quanto successo all’ossessione contemporanea per l’identità e alla pretesa del pubblico che al successo equivalga un contrappasso in once di carne e privacy (fattori comunque importanti, che non si può cancellare dall’equazione), io credo fermamente che la risposta del Sole 24 Ore sull’identità della Ferrante derivi da domande ben più sinistre.
Questo perché sono anni che leggo editoriali, articoli e commenti sulla Ferrante. Mi è capitato davvero poche volte di leggere un discorso coerente e approfondito sulla sua opera, perché quando la critica italiana parla dell’autrice (e lo fa poco, pochissimo considerando il suo peso specifico a livello internazionale), il focus del discorso è sempre extraletterario e pieno di disagio. Disagio che deriva dal fatto che, senza un nome e un corpo, il giornalismo tutto italiano non sa nemmeno come parlare di una donna e del suo lavoro di scrittrice.
Tutto è cominciato con il successo estero della quadrilogia napoletana, che per proporzioni e vastità fa impallidire l’ottimo riscontro di vendite italiano. La soggezione e la xenofilia della nostra intellighenzia, specie nei confronti della realtà statunitense, è cosa nota, per cui come scendere a patti con le vendite record? Inizialmente si è avviata una ricerca di un nome a cui attribuire l’opera, sempre più insistentemente legata a un autore di sesso maschile. Non importa se la Ferrante tra le poche informazioni su di sé, afferma chiaramente di essere donna: praticamente ogni scrittore napoletano d’origine o di fascinazione a un certo punto è stato sospettato di nascondersi dietro il suo nome.

Poi ovviamente è arrivato il diluvio di stroncature. Ironicamente a Elena Ferrante si contestano gli stessi difetti che inizialmente vennero rivolti al suo palese modello, anche per lo pseudonimo: Elsa Morante. Come per La Storia, la quadrilogia della Ferrante pecca del più grave dei crimini per l’ingessatissima critica italiana: ha una forma troppo semplice. Una critica così abituata a crogiolarsi in paratassi e sintassi complesse, ad usare paroloni per definire scrittori che a loro volta ne abusano senza motivo, ad osannare citazionismi oscuri e ricercati compiacendosi di averli individuati, non può che ritenere inaccettabili quelli che si sono rivelati i punti di forza della quadrilogia. I romanzi della Ferrante mettono al centro una semplicità quotidiana di storia e di stile, il vissuto e il sentito dei personaggi.

Il precario equilibrio con cui l’establishment italiano è riuscito ad approcciare l’oggetto Ferrante si rompe quando su quelle stesse testate estere su cui basa i propri gusti e i propri giudizi arrivano lodi e critiche più che positive alla letterarietà dell’opera. Portata in palmo di mano dalle grandi riviste letterarie, finita persino nella classifica delle persone più influenti al mondo del Times: Elena Ferrante non è più una scrittrice di best seller, è un’autrice di riconosciuta letterarietà.
Qui raggiungiamo le vette dell’assurdo e della negazione da psicoanalisi. Qualcuno sostiene che Elena Ferrante lusinghi i lettori stranieri dandogli in pasto quell’italietta di napoletani poveri ma belli da cui vengono ingannati gli stimati recensori delle grandi riviste. Il mio preferito è il pezzo in cui viene svelato l’arcano: all’estero piace anche alla critica perché il testo è tradotto meglio di quanto in realtà sia in italiano.

La ricerca di un nome non si è mai fermata e anzi, s’inasprisce. La critica annaspa, mentre chi va in vacanza all’estero torna stupito dal successo che l’autrice riscuote ovunque, onnipresente nelle librerie e sulle riviste.
Il gioco dei se è pericoloso, ma a questo punto il dubbio è legittimo: fosse assurto a fama internazionale un Roberto Saviano dietro pseudonimo, avrebbe subito la stessa gogna finanziaria o sarebbe diventato noto a livello italiano come quello che ce l’ha fatta, anche all’estero?

Non ho nemmeno bisogno di azionare il mio turbo femminismo per trovare ovunque tracce del disagio che sta dietro ad anni di articoli maligni e mal argomentati. Non è (solo) l’invidia (anche se ce n’è tantissima), è la difficoltà di rapportarsi con il successo di una donna che non puoi inscatolare nelle categorie che riordinano il caos del mondo per il giornalismo italiano.
Sarò prevenuta e melodrammatica, ma la mia impressione è che Claudio Gatti non risponda ai lettori curiosi, ma al bisogno disperato dei suoi colleghi e dei letterati italiani di poter finalmente incasellare Elena Ferrante in una categoria che non sia artista, una categoria davvero femminile.

Da oggi in poi potranno farlo, posso già sentire i sospiri di sollievo. Da oggi in poi potranno scrivere del successo della Ferrante e parlare frequentemente dei suoi libri, perché finalmente sarà la moglie di, sarà una che ha deciso di non avere figli, sarà una alto borghese, sarà ebrea. Nemmeno il vissuto della madre di Ferrante è stato risparmiato dalla foga con cui Gatti ha tracciato un profilo biografico della figlia, includendo ogni informazione recuperata nel suo incessante scartabellare.
In mezzo a tante etichette, Gatti e gli altri potrebbero persino concederle di essere scrittrice.
O forse no, perché finalmente hanno un nome e un corpo. Già nell’articolo di Gatti c’è la sottolineatura maliziosa al presunto apporto all’opera del maschio della situazione:

“anche se non si può certamente escludere che Starnone abbia dato un rilevante contributo intellettuale”
Apporto definito rilevante, perché altrimenti senza tocco maschile come si sarebbe arrivati a tale successo? È servita la casa da sogno per stanarla, ma non passano che poche ore e qualcuno è già pronto a rinfacciarle l’appartamento milionario e l’utilizzo che fa dei suoi soldi.
Non mi sentirei di escludere nel prossimo futuro qualche commento sulle sue origini ebraiche o sul suo aspetto fisico. L’articolo di Gatti è forse lo scoop dell’anno, ma è anche la risposta a chi aveva bisogno di ridurre l’autrice alle uniche categorie che si merita una donna: moglie, madre, bella, giovane, ricca, nella speranza che non spunti un “cicciottella”.
Pazienza se questo processo porterà a perdere la Ferrante, a rinchiuderla in un silenzio che aveva avvertito sarebbe calato, che aveva supplicato di evitare lasciandole la gioia di scrivere senza l’onere di essere pubblica persona. Anzi, probabilmente questo esito a qualcuno farà persino piacere



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